Erano giorni che nevicava, nonostante fossero solo i primi di Dicembre la temperatura era bassa, parecchi gradi sotto zero. Tutti dicevano che era troppo freddo per nevicare, invece nevicava. Nevicava, di continuo, senza interruzione, leggeri pezzi di cielo cadevano fitti ricoprendo la città.
I mezzi sgombraneve avevano accettato mestamente la loro sconfitta ed ora giacevano abbandonati, arenati contro montagne di neve che loro stessi avevano contribuito ad innalzare.
Tutto era diverso, strano; era bizzarro non vedere macchine muoversi ovunque, autobus, furgoni, tutto il normale traffico della città era interrotto, ma ciò che davvero colpiva i sensi era la diversa qualità del rumore. Non c’era silenzio, no, anche se la neve assorbiva con dolcezza le vibrazioni sonore non c’era silenzio, ma quello che si sentiva non era il ronzio meccanico, il brontolio dei motori a scoppio, il continuo lavorio di milioni di ingranaggi. Le grida dei bimbi, il fruscio smorzato dei pattini delle slitte, le voci delle persone avevano riconqustato la città.
E la notte c’era il vero silenzio. Nessuno ricordava più come fosse il silenzio.
Il silenzio lo capisci solo quando puoi sentire il fruscio lieve del vento, i fiocchi di neve che si appoggiano uno sull’altro, il volo di un uccello che fende l’aria. Solo allora comprendi cos’è e cosa ti sei perso in anni di traffico, televisori, iPod che ti hanno reso sordo.
La notte potevi sentire perfino te stesso, a volte anche i pensieri sembravano troppo rumorosi.
All’inizio fu solo qualche impronta. Voci, chiacchiere incontrollate serpeggiavano fra la gente, ma in fondo nessuno ci credeva. Dentro di noi non potevamo credeci ed allora per rassicurarci dicevamo che doveva per forza trattarsi di qualche cane in cerca di un riparo. Poi le impronte divennero numerose, sempre più vicine al centro della città, un intero branco, ma ancora nessuno voleva ammetterlo.
L’ulutato ci sorprese. Lacerò la notte, improvviso, intenso, selvaggio. Un coro di uluati nel cuore della città, nel centro della civiltà. Tutti ci svegliammo di soprassalto, corremmo alle finestre, curiosi, spaventati, meravigliati. Ma era tardi. Nessuno riuscì a vederli. La mattina dopo trovammo le impronte, erano stai li.
Aveva smesso di nevicare ed anche quello sembrò strano, il sole era caldo, più di quanto ricordassimo. La temperatura si alzò rapidamente e la neve si sciolse in fangosi rigagnoli. Un po’ alla volta gli sgombraneve ripresero il loro lavoro, qualche automobilista temerario montò le catene e ricominciò a cricolare ed alla fine non rimase nulla della coltre bianca che per qualche giorno aveva bloccato la città, fissandola nel tempo come un ricordo.
La stagione riprese il suo normale corso e in poco tempo fingemmo di scordare ciò che era successo. Non ne parlavamo fra di noi, l’avevamo cancellato dalla mente, dai discorsi, mentivamo perfino con noi stessi.
Ma in realtà nulla fu più come prima, perché nessuno poteva davvero scordare il momento in cui qualcosa di selvaggio era entrato in città e nelle nostre menti. Quegli uluati avevano frantumato migliaia di anni in pochi secondi. Ciò che credevamo per sempre bandito dalle nostre città, fortezze fragili di una civilizzazione che ci faceva scordare che siamo solo una bizzarria della natura era riapparso potente, improvviso per ricordarci che esiste un mondo fuori e dentro di noi che sfugge al nostro controllo, alla nostra mania di addomesticare e di addomesticarci.
Nulla fu più come prima.