Wiliam Shaw si alzò, lo fissò negli occhi inarcando le sopracciglia folte e scure, afferrò il manoscritto e lo sbatté sulla scrivania. Don Tellerman spalancò la bocca, quel plico di fogli maltrattati era il suo manoscritto. Quel colpo era uno sparo alla tempia delle sue speranze. Shaw digrignava i denti continuando a fissarlo, le pupille ristrette, le sue narici fremevano. Don deglutì, fece per parlare, ma Shaw alzò una mano intimandogli di tacere, poi espirando profondamente si risedette sulla poltrona.
“Don, Don, che ti è successo?” Shaw sorrise, ma quei solchi fra le sue sopracciglia aggrottate continuavano a preoccupare Tellerman. “È il terzo racconto che mi tocca rifiutarti. Cosa ti salta in mente?” il dispiacere nella sua voce era commovente, ora avrebbe dovuto cercare qualcos’altro per riempire quel buco di 5 pagine su “Fantastic world” e come Tellerman sapeva avrebbe dovuto ricorrere a qualche scrittore che si faceva pagare più di lui. Shaw era un editore che amava l’arte, quella che preferiva era l’arte di sottopagare gli autori.
Shaw riprese. “Quante cose ti ho pubblicato fino ad ora? Cinque? Sei?”
Don tentò di rispondere, ma Shaw non sembrava interessato a un dialogo e proseguì. “Erano cose buone, mi piacevano, ho sempre detto che ci sapevi fare. Ma questi ultimi racconti, ecco non so proprio che cazzo ti è preso.”
Afferrò il manoscritto scompigliandone le pagine, ne scelse una a caso e lesse: “Nel corso degli anni il suo umore si era gradualmente e stabilmente incupito fino a portarlo ad una costante tetraggine che lo aveva reso lo zimbello dei suoi concittadini. Lui non se ne preoccupava, era si infastidito dalle risate e dagli indici puntati, ma l’orrore che provava, il terrore strisciante e infido che si era lentamente impadronito della sua mente lo rendeva indifferente alle provocazioni. Lui sapeva che un’indicibile orrore era subdolamente nascosto dietro l’apparente tranquillità quotidiana della campagna. Ombre malsane si allungavano strisciando, testimoni di remoti abomini. Ignobili eventi, sconosciuti agli uomini che vivevano così in una tranquilla ignoranza, ma i cui innominabili effetti contaminavano ancora malignamente quella terra e i suoi abitanti.”
Allargò le dita lasciando cadere il foglio che finì ondeggiando, direttamente nel cestino. Sospirò nuovamente, incrociò le dita e guardò Tellerman negli occhi. “Questa roba fa schifo. Che cazzo è questa merda? Non c’è un dialogo, non c’è azione. Non succede nulla. Non si vede nulla!”
Shaw aprì un cassetto e ne prese un libro che lanciò a Tellerman. Don lo afferrò al volo, ma il libro gli sfuggì di mano cadendo sul pavimento. Arrossì e si piegò a raccoglierlo sentendo su di se lo sguardo di Shaw. Lesse il titolo ‘Elementi di stile nella scrittura’ di Strunk e White.
L’editore fece una smorfia, poi indicò il libro. “Questo libro ha più di cinquant’anni. Tutti l’hanno letto e studiato, a scuola, nei corsi di scrittura; scommetto che lo leggono perfino all’asilo. Possibile che tu sia l’unico a non averlo mai letto? Dammelo.”
Tellerman tese il libro a Shaw che lo sfogliò quasi strappandone le pagine prima di fermarsi a leggere: “Scrivi con sostantivi e verbi, non con aggettivi e avverbi.”
Gli ripassò il libro.
“Sostantivi e verbi. Hai capito? Non aggettivi e avverbi. Qui dentro,” posò la mano sui fogli del manoscritto e li spazzò via facendoli cadere a terra. “ci sono abbastanza aggettivi e avverbi per dodici volumi.”
Si piegò in avanti facendo segno a Tellerman di avvicinarsi. “Lo vuoi sapere un segreto? Dev’essere un segreto visto che sembra che tu non l’abbia mai sentito. C’è una cosa, una sola che devi tenere a mente quando scrivi narrativa. Fai vedere, non raccontare. Mai sentito eh?”
Tellerman deglutì e prese coraggio. “Io racconto quello che sento. So raccontare solo quello che vedo. Quelle sono regole che vanno bene per i principianti, il mio stile…”
“Stile!” gridò Shaw. “Tu adesso prendi il tuo stile e te lo ficchi dove sai, vai a casa, prendi un foglio, con un bel pennarello grosso scrivi ‘SHOW DON’T TELL’ e te lo tieni bene in vista.”
“Ma Lovecraft…”
“Lovecraft era un incapace. Nessun editore pubblicherebbe mai quella roba al giorno d’oggi e a dire il vero anche ai suoi tempi non è che abbia fatto una gran fortuna.”
Shaw sorrise. “Su, non fare il depresso adesso. L’idea di fondo non è male, ma devi riscriverlo. Devi mostrare quello che succede, dettagli specifici, accadimenti. Cos’è questo orrore indescrivibile? Gli esseri di cui parli, cosa fanno? Possibile che stiano li senza far nulla? Mostrali mentre smembrano qualcuno, fai vedere il sangue, i tendini spezzati, la pelle lacerata, le urla. Il lettore deve sentirsi al cinema, non seduto in poltrona con qualcuno che gli racconta una storia. Piantala di stare li a sussurragli quello che deve sentire. Fagli vedere le cose. Come al cinema. Ok?”
Tellerman annuì e si alzò.
“Riscrivilo come dico io e ti trovo spazio nel prossimo numero. So che ce la puoi fare.”
Shaw gli tese un biglietto. “È l’invito a una festa a casa mia. C’è l’indirizzo.”
Tellerman diede un’occhiata al biglietto.
“Ci saranno un sacco di scrittori.” proseguì Shaw. “Vieni. Magari parli con loro e ti chiarisci le idee.”
Tellerman ringraziò e uscì a testa bassa. Prese l’autobus che in mezz’ora l’avrebbe portato fuori città, verso le colline. Per tutto il tragitto, non fece che ripensare a ciò che gli aveva detto l’editore. Forse in fondo non aveva nemmeno torto. Scese al capolinea e si avviò a piedi per una stradina sterrata che portava alla villetta isolata in cui si era trasferito da alcuni mesi. Ad ogni passo sentiva il cuore farsi più pesante. Il verde della campagna sembrava dissolversi lentamente in un grigiore malato. Perfino l’aria tiepida della primavera carica del profumo denso dei fiori, assumeva via via il tono dolciastro di umido e decomposizione. Lugubri uccelli lanciavano stridenti richiami in contrasto con l’allegro cinguettio che risuonava nella campagna circostante. Tellerman sentì la sensazione familiare di profondo orrore che sempre lo pervadeva ogni qualvolta giungeva alla casa. Gli stipiti corrosi, la facciata scrostata e le imposte malridotte non erano però sufficienti a spiegare la sensazione di disgusto che coglieva chiunque giungesse in quei paraggi. Tellerman sapeva che avrebbe potuto semplicemente voltarsi e andarsene per sempre, ma sarebbe servito? L’orrore profondo, il terrore che lo attanagliava lo avrebbe seguito ovunque, era ormai dentro di lui, impossibile da scacciare. Forse solo la follia avrebbe potuto essere l’unica via di scampo dalla consapevolezza del profondo orrore che gli si era svelato.
Entrò in casa. Un’atmosfera malsana gravava pesante su ogni cosa. Deglutendo andò dritto verso il soggiorno. “Niente da fare.” disse. “Non gli è piaciuto nemmeno questo.”
Un numero imprecisato di occhi si girarono a fissarlo. Un essere gelatinoso colava da uno dei mobili, il suo corpo da ameba si protrasse verso di lui. Sul divano una specie di budino dotato di corte appendici e di molti occhi lo stava fissando. Dietro di lui un essere peloso, con una bocca enorme e degli arti corti e grossi borbottava in un linguaggio raccapricciante. Un tentacolo sfiorò con gentilezza Tellerman che non riuscì tuttavia a reprimere un brivido di disgusto. Un corpo enorme, bianco e lucido con lunghi tentacoli pallidi era incastrato nel vano della porta dietro di lui.
“Dice che non basta raccontare l’orrore. Non gli basta. Dice che i lettori vogliono i dettagli. Vogliono vedere braccia strappate, sangue, tendini, ossa frantumate.”
Prese l’invito alla festa dell’editore e lo tenne fra le dita finché un tentacolo non glielo sfilò di mano.
“Io so raccontare solo quello che vedo.” aggiunse con tristezza.
Sonny O
[Fruscii] – 2014