Ott 142013
 

TexasSolo il ventilatore scassato del vecchio Ed segnava con il ritmico rumore delle pale lo scorrere del tempo nell’aria, altrimenti immobile, dell’assolato pomeriggio. Il vecchio Ed aveva cercato di ripararlo, ma quando aveva chiamato la ditta produttrice gli avevano risposto che quel modello era considerato da museo e non esistevano quindi più ricambi. Così l’aveva lasciato stare, tanto girava comunque, ma il suo asse di rotazione, non più stabilmente fissato come avrebbe dovuto essere, migrava pigramente come una precessione degli equinozi in scala ridotta con un periodo di cinque secondi, portando periodicamente una delle pale ad urtare contro la griglia di protezione.

Il vecchio Ed, il suo non era solo un soprannome, era realmente vecchio essendo giunto all’invidiabile età di 102 anni, usci sotto il sole cocente coprendosi la testa con il suo Stetson e attraversò con calma la piazza silenziosa dirigendosi verso un viottolo sterrato che portava alla stalla. Si guardò attorno scuotendo la testa, i suoi concittadini erano certo rintanati nelle loro case a godersi la stramaledetta aria condizionata, nessuno che usasse più un ventilatore. “Dannata aria condizionata.” il vecchio Ed sputò sull’asfalto un po’ di saliva, che evaporò sfrigolando talmente in fretta che gli venne da chiedersi se fosse arrivata a toccare il suolo. L’aria era opprimente, un cappa di calore asfissiante avvolgeva da giorni la contea, ma cionondimeno i cavalli avevano bisogno di qualcuno che si occupasse di loro e il vecchio Ed non pensava che il caldo fosse una scusa sufficiente per starsene li sfaccendati a respirare l’aria fredda e puzzolente di “finto” di un condizionatore. Dovette però ammettere con se stesso che era davvero caldo; il cappello, la leggera camicia a scacchi e jeans sdruciti che indossava lo proteggevano dai raggi del sole, ma respirare quell’aria afosa era realmente faticoso. Non era solamente calda, aveva in sé qualcosa di malsano che opprimeva lo spirito oltre che il fisico e faceva nascere pensieri malati. Scosse di nuovo la testa, come per schiarirsi le idee e aprì il portone della stalla.

“Martin!” gridò Johanna Cooper chiamando dalla cucina il marito. Stava sparecchiando la tavola, non era ancora arrivata in cucina con il primo carico di piatti e posate che suo marito era già sparito, approfittando della sua breve assenza. “Maledetto bastardo,” pensò Johanna “se la squaglia sempre più in fretta, ormai è più lesto di un serpente quando si tratta di sfuggirmi.” Lo chiamò nuovamente senza ottenere risposta, ma il borbottio della tv le fece capire immediatamente dove fosse finito il marito. Sicuramente stava guardando qualche partita comodamente seduto in poltrona. Per l’ennesima volta cercò di ricordare perché l’avesse sposato. Il grosso orologio a pendolo con le sue decorazioni eccessive ticchettava inesorabile quasi deridendola con la sua opera di rendere tangibile e avvertibile lo scorrere del tempo. Tornò in sala da pranzo. Passando davanti ad una delle finestre vide il vecchio Ed uscire di casa e attraversare la strada sotto il sole cocente. “Vecchio idiota” brontolò fra se, poi urlò rivolgendosi al marito “Guarda quello scemo del vecchio Ed, se ne va a spasso sotto il sole cocente, finirà per tirare le cuoia e sai chi dovrà andare a recuperarlo? Noi! Cosa diavolo crede di fare? Fa così caldo che non si respira nemmeno e lui se ne va in giro come niente fosse. Qualcuno dovrebbe fare qualcosa o gli verrà un colpo!”
Martin sospirò fra sé, possibile che quella stronza non si facesse mai gli affari suoi? Aveva sempre da ridire su tutto e su tutti, non le andava mai bene nulla, brontolava, brontolava, brontolava di continuo. Non era così quando si erano sposati, o forse si? Cercò di ricordare cosa avesse trovato in lei, ma non riusciva a pensare, quel periodo di caldo infernale l’aveva distrutto. Sapeva solo di dover dire qualcosa se voleva farla tacere. Prese fiato e le gridò “Si, e chi ci va a dire al vecchio Ed che deve starsene chiuso in casa? E che dovrebbe convincerlo a installare un condizionatore secondo te? Vuoi farlo tu? Sua figlia c’ha già provato quarant’anni fa e lo sai com’è andata a finire; e ricordi cos’è successo cinque anni fa quando ci hanno provato i suoi nipoti? Sono quasi venuti alle mani.”
Johanna rabbrividì al pensiero, affrontare il vecchio Ed non era certo quello che aveva in mente, quello stronzo di suo marito aveva ragione e questo contribuì a farla infuriare maggiormente. Un raggio di sole riflesso da un vetro le ferì gli occhi. Tirò con rabbia le tende per escludere quella luce accecante e la visione del vecchio Ed che, attraversata la strada, imboccava la stradina polverosa che portava alla stalla dei suoi stramaledetti cavalli, ma non servì a calmare i suoi nervi.

Paul Miller imprecò fra se contro suo gemello Bob, possibile che quell’idiota combinasse sempre qualche pasticcio? Erano fortunati ad essere gli unici meccanici della zona, altrimenti nessuno si sarebbe più rivolto a loro visti i casini che quel bastardo combinava. Si immerse nuovamente nella pila di carte che ingombrava la sua scrivania, forse avrebbero dovuto prendersi un computer. Il condizionatore ronzava fastidiosamente, quel rumore persistente non gli permetteva di concentrarsi, ma piuttosto che spegnerlo e arrendersi al caldo irrespirabile di quei giorni cercava di escluderlo dalla mente. L’aria fuori era così calda che sembrava schiacciarti la cassa toracica, ti assaliva e ti metteva a terra come un diretto al plesso solare. La pila di carte crollò a terra. Reprimendo la rabbia si alzò per cercare il fratello. Era colpa sua se aveva combinato un casino, che fosse lui a sistemare le cose. “Dove si sarà cacciato?” borbottò Paul fra i denti, sbattendo la porta dell’ufficio con tale violenza da farne tremare il vetro. Entrò nell’officina e aggirò alcune macchine con il cofano spalancato, come enormi bocche pronte ad inghiottirlo. Ricacciò l’immagine sgradevole di una macchina che cercava di divorarlo e si mise a cercare il fratello. “Bob!” urlò “Brutto stronzo, possibile che non ne fai una giusta? Hai ordinato ancora una volta i pezzi sbagliati. Chi ce li pagherà questi? Non so nemmeno dove li hai ordinati, dove sono le fatture? E come faremo a riparare queste stramaledette macchine?” L’aria gelida del condizionatore lo sfiorò facendolo rabbrividire. Non era colpa del freddo, ogni volta che una corrente d’aria lo sfiorava pensava sempre al tocco di un fantasma e non riusciva a tenere lontano dalla mente il ricordo della mano gelida di suo padre. Pensava a sua madre che, quando lui e il fratello si erano avvicinati al letto, aveva preso le loro mani e le aveva tenute fra le sue aggiungendo alla stretta la mano fredda di loro padre. E anche ora quando lui e il fratello litigavano gli tornavano in mente le urla del padre che intimava loro di smetterla.
Ma ora suo padre non c’era e lui non si sentiva certo dello stato d’animo migliore per fare pace, tutt’altro. Continuò a cercare fra la macchine, quando malauguratamente colpì con uno stinco un pezzo di carrozzeria malamente appoggiato contro il muro. Lanciò un grido di rabbia e scagliò con forza una chiave inglese con cui stava giocherellando. Con il volto rosso di rabbia ricominciò a inveire contro il fratello.

Richard Thornton guardò sua moglie che dormiva sotto una coperta leggera. Che assurdità, in casa si doveva dormire con la coperta mentre fuori era così caldo che nessuno sano di mente sarebbe uscito durante il giorno. E così tutti stavano in casa, dalla mattina alla sera, lui, sua moglie che almeno era sufficientemente saggia da passare il suo tempo dormendo, così almeno faceva silenzio, e i bambini. Quelli no, non dormivano, passavano tutto il giorno urlandogli nelle orecchie, sempre con la tv accesa ad un volume così alto che avrebbero potuto sentirla dallo spazio. Altro che costosi programmi pagati con soldi pubblici per lanciare messaggi agli alieni, quei quattro piccoli bastardi con la loro cazzo di tv sarebbero riusciti a farsi sentire da qualunque alieno la fuori. Solo che quelli sono intelligenti, mica se ne stanno li ad ascoltare queste stronzate, se ne stanno alla larga. Lui no, cazzo! Lui doveva stare li, tutto il giorno a sorbirsi le urla dei figli, le urla della tv e sua moglie che passava la giornata ciondolando indolentemente e russando. Come cazzo facesse a dormire così tanto per lui era un mistero, con tutto quel casino poi, ma a lei pareva non dare nessun fastidio. E questo lo faceva imbestialire. Che dormisse pure tutto il giorno, avrebbe anche potuto essere morta, per lei non avrebbe fatto alcuna differenza, tanto, per quello che faceva. Per lui… per lui invece sarebbe stato un bel miglioramento. Accarezzò l’idea e ad ogni rumoroso respiro della moglie gli sembrava sempre più attraente. I figli lanciarono un urlo selvaggio facendolo trasalire. Spalancò la porta della camera a affacciandosi alla scala urlò: “Fatela finita o scendo io e allora avrete un motivo vero per urlare!”
Si sedette sul letto tappandosi le orecchie, non ne poteva più di quel casino, gli venne da piangere. Fuori quell’aria insopportabile che ti si appiccicava addosso, ti toglieva le forze, ti svuotava il cervello. E dentro, il ronzio incessante del condizionatore, l’aria fredda sparata a forza, sua moglie che dormiva mentre lui non riusciva mai a chiudere occhio, il rumore continuo, insopportabile della tv e i figli che piangevano, gridavano, ridevano, ma qualsiasi cosa facessero non la facevano mai in silenzio.

Il vecchio Ed si fermò un attimo sulla soglia, aspettando che gli occhi si abituassero alla relativa oscurità della stalla. I cavalli scalpitavano nervosamente e benché il suo ingresso contribuisse a calmarli rimasero comunque più irritabili del solito. Diede loro del fieno, mise della paglia pulita nei loro box, poi li fece uscire nel recinto; nonostante il sole e il caldo erano visibilmente contenti di potersi muovere. Il vecchio Ed attaccò la pompa dell’acqua e spruzzò il terreno del recinto, per mitigare un po’ il calore e impedire agli animali di sollevare troppa polvere. Si guardò attorno, non c’era nessun altro oltre a lui, una volta i bambini sarebbero stati tutti in giro e lui sarebbe riuscito ad acchiapparne qualcuno per farsi dare una mano. Invece adesso erano tutti in casa, istupiditi dalla televisione tanto da non accorgersi nemmeno più che c’è un mondo reale da scoprire, e quelli, quei pochi, che avrebbero voluto uscire erano obbligati a stare in casa da genitori pavidi e iperprotettivi spaventati da un po’ di caldo.
Rientrò nella scuderia continuando a spruzzare acqua per lavarne il pavimento e ritornò con la mente a giorni lontani. Ripensò alle estati di quand’era bambino, trascorse ad aiutare nei lavori della fattoria. Ricordò la felicità di quando lui e i suoi coetanei del villaggio riuscivano a sfuggire agli adulti e al loro mondo fatto di obblighi e impegni, e tutti assieme correvano al fiume che scorreva limaccioso e pigro, quasi in attesa del loro arrivo. Scalzi, attraversavano correndo il terreno riarso e gli arroyos disseccati per lanciarsi ululando come selvaggi nelle acque torbide del fiume. Erano momenti di libertà assoluta, non esistevano più le regole, le usanze, le tradizioni. Il fiume e le sue rive erano una zona franca a cui tutti, per un tacito e bizzarro accordo, avevano diritto di accesso. Perfino le bambine erano ben accette e si univano con gioia alle zuffe e ai litigi. Qualche volta anche i bambini di colore riuscivano a sfuggire ai genitori e ai loro pesanti incarichi e si aggregavano alla compagnia e nessuno vi trovava nulla da ridire. Molti anni dopo aveva visto un documentario alla televisione, di quelli girati in Africa, fra gli animali selvaggi, dal National Geographic o qualcosa del genere che gli aveva fatto ripensare alle loro scorribande al fiume. Lo speaker raccontava che nei momenti di grave siccità poteva capitare di vedere leoni, zebre, gazzelle e leopardi tutti a bere alla stessa fonte, in una temporanea tregua imposta dal clima. Allo stesso modo il “loro” fiume era un luogo dove non esistevano più differenze, poveri o ricchi, bianchi o neri, schiavi, maschi e femmine tutti si ritrovavano uguali con lo stesso diritto di sguazzare e di rubare un attimo di felicità che rinfrescava più lo spirito che il corpo. Invece adesso bambini e ragazzi erano tutti al chiuso, protetti dal sole e dal caldo dalle spesse mura e dall’onnipresente condizionatore. Certo faceva caldo, ma lui ricordava momenti peggiori. In certe estati folli uno dei loro divertimenti di ragazzi era scovare i serpenti rifugiati all’ombra delle rocce e scagliarli in pieno sole, attendendo poi che finissero cotti dal tremendo calore. O almeno così gli pareva fossero andare le cose.
Fece rientrare i cavalli che continuavano a manifestare segni di nervosismo. C’era qualcosa, qualcosa che gli animali avevano percepito, ma che lui non riusciva ad avvertire.

Johanna Cooper immerse le mani nel lavello colmo d’acqua. Odiava lavare i piatti, ma aveva continuato a farlo anche dopo che il marito, dopo aver resistito a lungo alle sue insistenze, le aveva comperato la lavastoviglie. Ma secondo Johanna aveva aspettato troppo e così, per puntiglio, aveva continuato a lavare a mano piatti e stoviglie nella speranza di farlo sentire in colpa o per lo meno di dargli fastidio, senza per altro sortire alcun effetto.
“Sei in cucina?” le gridò il marito dal soggiorno, “Dai vieni qui a guardare la tv, possibile che tu abbia sempre qualcosa da fare in quella dannata cucina? E già che vieni porta della birra fredda.”
Johanna sentì fra le dita la lama del grosso coltello da arrosto, lo estrasse dall’acqua piena di detersivo, lo risciacquò con cura, poi lo asciugò con attenzione, mentre il marito iniziava a dare segni di impazienza per la sua mancata risposta. Con il coltello stretto nel pugno si avviò verso il soggiorno.
“L’unica cosa fredda che sentirai, sarà questa lama affilata.” pensò osservando l’espressione decisa del proprio viso riflessa nell’acciaio lucido.
Martin Cooper allungò una mano, senza voltarsi, per afferrare la bottiglia di birra.
Johanna si avvicinò silenziosamente con gli occhi fissi alla nuca del marito, così vulnerabile ed esposta.

L’odore di olio e grasso permeava l’aria, a molte persone dava fastidio, ma per Paul Miller era l’odore di casa, quell’odore familiare e confortevole in cui ti puoi accoccolare tranquillo e sentirti al posto giusto. Erano cresciuti in un’officina. La loro casa era proprio sopra l’unica officina della città, quella in cui loro padre riparava praticamente qualsiasi cosa, macchine, trattori e tutto quanto avesse degli ingranaggi. Fin da piccoli lui e suo fratello si divertivano con chiavi inglesi e cacciavite e molto presto iniziarono ad aiutare il padre sul lavoro.
Ma quel giorno il forte odore che pizzicava le narici non ebbe alcun effetto calmante sui sui nervi, la rabbia che provava nei confronti del gemello non si placava affatto, anzi cresceva e montava ad ogni istante che passava. Erano identici fisicamente, ma assai diversi di carattere, lui preciso, metodico, rigoroso, suo fratello un fantasista, confusionario, pieno di immaginazione. Lavorare assieme era una pena, ma quando ci riuscivano i risultati erano straordinari. Per qualche anno avevano preparato macchine per le gare ed erano stati i meccanici più ricercati nel mondo delle corse. Soluzioni fantasiose e brillanti realizzate con precisione e tecnica perfette li avevano trasformati ben presto in personaggi di spicco, finché la pressione continua non li aveva portati al limite ed avevano scelto di tornare nella loro città, a riparare trattori, macchine e tutto quanto i loro concittadini ritenessero di loro competenza, il che comprendeva praticamente ogni cosa che non funzionasse. E la colpa di tutto ciò era di Bob. Lui non aveva retto alla pressione, lui aveva insistito per mollare le corse, quel maledetto bastardo, avrebbero potuto essere ricchi e famosi invece di vivacchiare in quel buco in mezzo al nulla. La rabbia lo assalì con maggior forza, afferrò un martello, abbandonato nel posto sbagliato sicuramente da suo fratello, e accarezzandolo lentamente riprese a cercare Bob. Il suono di musica rock ad alto volume proveniente da lettore mp3 di suo fratello lo guidò nella direzione giusta, la testa del gemello spuntava dalla buca realizzata per lavorare sotto le macchine, solo la nuca era visibile, il resto della testa era nascosto dalla ruota di una grossa Buick. Paul strinse con forza il martello avvicinandosi silenziosamente, soppesò la forza con attenzione e si preparò a vibrare il colpo.

La moglie di Richard Thornton si mosse nel sonno, quel leggero movimento riscosse Richard dal suo torpore. Lui la guardò, il braccio di lei teso verso il comodino sembrava indicargli qualcosa. Aprì il cassetto e il suo sguardo si fermò in contemplazione della canna nera, dell’acciaio brunito, del calcio che sembrava fatto apposta per la sua mano. Pianse per la felicità quando sentì in mano il peso dell’arma. L’aveva comprata con poca convinzione, non era mai stato un patito delle armi, ma era in Texas, e in quella dannata cittadina tutti avevano delle armi. Ma ora capiva di aver fatto la scelta giusta, con la pistola in mano sentiva che tutto sarebbe cambiato, ora tutto sarebbe andato per il meglio. Cercò le munizioni e caricò la pistola, la usava così di rado che faticò a ricordare come si inserivano i colpi nel caricatore.
Tolse la sicura e fece scorrere il carrello per introdurre il primo colpo in canna. Quel semplice movimento gli procurò un brivido di piacere, chiuse gli occhi e assaporò il silenzio che presto sarebbe regnato in casa, ancora pochi istanti e avrebbe potuto finalmente riposare, chiudere gli occhi e godersi tranquillità e solitudine.

Ed chiuse dietro di se le porte della scuderia. Un profumo lieve gli punse le narici. Inspirò profondamente scoppiando a ridere, ecco cosa rendeva nervosi i cavalli. Se ne sarebbe dovuto accorgere molto prima anche lui, ma forse stava invecchiando, o forse era stato semplicemente troppo distratto. L’odore della pioggia e del terreno bagnato permeava l’aria, anche se le prime gocce non erano ancora cadute sulla città, ma verso sud dense nubi temporalesche stavano scaricando un violento nubifragio e si avvicinavano rapidamente. Il bagliore dei fulmini illuminava dall’interno le nuvole scure in un continuo susseguirsi di scariche elettriche.

Johanna si sentì vibrare come se un tuono fosse nato dentro di lei e sgorgato verso l’esterno. La testa continuava a rimbombarle, guardò costernata la propria mano che reggeva il coltello, aspettandosi di vederlo imbrattato del sangue di suo marito, ma la lama lucida era perfettamente pulita. Il tuono era reale, il fragore assordante aveva fermato la sua azione, congelandola nell’istante prima di colpire. Corse alla finestra e con le lacrime agli occhi fissò lo sguardo sulle nubi scure che incombevano ormai sopra la città. Quando suo marito le si avvicinò e le cinse la vita lei lo strinse forte continuando a fissare il temporale.

Paul Miller pensò ancora una volta a come sarebbe stata la vita senza quel gemello così uguale a lui e allo stesso tempo così diverso. Finalmente sarebbe diventato “Paul Miller”, un individuo completo, non “uno dei due gemelli Miller”. Doveva solo colpire e si sarebbe liberato per sempre di quella scomoda metà che gli impediva di essere se stesso.
Le pesanti porte dell’officina si spalancarono di colpo e un vento impetuoso si riversò all’interno, avvolgendolo con la forza di un abbraccio forte e quasi violento. Paul Miller lasciò cadere a terra il martello pingendo. Nei giorni seguenti in città tutti parlarono di quel vento impetuoso e della tempesta che l’aveva seguito, ma solo lui sapeva di aver sentito suo padre che l’abbracciava con forza, come usava fare quando voleva che lui e il fratello smettessero di litigare.

Richard spostò lentamente la canna della pistola in direzione della moglie, strinse il calcio con forza mentre l’indice iniziava inesorabile il suo movimento definitivo. La porta della camera si spalancò di colpo e la piccola Molly irruppe all’interno precipitandosi alla finestra gridando: “Papà, guarda papà. Piove!”
Richard Thornton appoggiò la pistola sul comodino e crollò in ginocchio accanto alla piccola Molly. Grosse gocce di pioggia rigavano i vetri e il bagliore del temporale si riverberava negli occhi sgranati di sua figlia. La strinse con forza, nascose il volto fra i capelli della bambina e ne ispirò il profumo con tutta la forza dei suoi polmoni. L’odore di sua figlia, così familiare gli fece girare la testa; la amava così tanto, amava così tanto i suoi figli, sua moglie. Spalancò la finestra e lasciò che la pioggia gli bagnasse il volto per confondere le sue lacrime.

Il vecchio Ed si avviò verso casa mentre le prime gocce rimbalzavano nella polvere. Pioveva così tanto che pochi istanti dopo poteva già vedere il cielo plumbeo riflesso nelle grosse pozzanghere.

Johanna scoppiò a ridere abbracciando il marito: “Guarda il vecchio Ed, sta ballando sotto la pioggia.”.

Paul impietrito davanti alle porte spalancate dell’officina sentì il braccio del fratello appoggiarsi sulla sua spalla. Entrambi rimasero in silenzio a guardare il vecchio Ed che si riempiva il cappello di pioggia.

Richard prese in braccio la figlia, la strinse forte affacciandosi alla finestra e risero assieme per le bizzarre piroette di quel matto del vecchio Ed.

 

M.E. Stetson
[Remoto geografico] – 2013

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