Giu 142013
 

OklahomaMe ne stavo seduto sotto il portico a guardare il piccolo orto che avevo rubato alle erbacce. Non che ne fossi particolarmente orgoglioso o che meritasse di essere contemplato, era solo la direzione più comoda verso cui posare lo sguardo. Le assi del pavimento scricchiolavano paurosamente a ogni movimento della sgangherata sedia a dondolo che sosteneva controvoglia la mia persona. Per fortuna non ero affatto grasso, ma anche così ero certo si sarebbe sfasciata se solo avessi preso in mano un libro per colpa del peso aggiuntivo.

La casa era in condizioni pietose, dopo anni di abbandono era un miracolo fosse ancor in piedi. Mi ero limitato a pulire alla bell’e meglio la cucina che usavo anche come camera da letto e avevo lasciato il resto esattamente come lo avevo trovato. Del resto se avessi voluto combattere l’entropia non sarei venuto qui.

L’orto era una faccenda diversa, dovevo pur mangiare qualcosa e quello era il modo più semplice per procurarmelo. In realtà non mi spiaceva lavorare nell’orto, per quanto mi scocciasse ammetterlo. Era una cosa del tutto incomprensibile, ma forse si ricollegava alla mia infanzia. Uno psicologo avrebbe di certo trovato qualche ragione assurda, un freudiano ad esempio si sarebbe sbizzarrito sugli evidenti quanto banali elementi sessuali, i solchi, i semi, il duro manico degli attrezzi…bah tutte cazzate, i freudiani mi stanno sulle palle. La verità è che sentire la fatica nei muscoli mi dava un certo piacere e il lavoro ripetitivo e tranquillo mi aiutava a rilassare la mente. Naturalmente non mi andava di esagerare, per cui curavo l’orto quel tanto che bastava perché producesse qualcosa, non di più, non mi interessava certo la copertina sulla rivista dell’agricoltore

Il mio sguardo si perdeva pigramente sul verde di fagioli e zucchine, sul rosso dei pomodori, sul viola carico delle melanzane, le melanzane non mi piacevano affatto, le avevo piantate per il colore, fortunatamente non ero obbligato a scelte sensate.

Una nuvola di polvere si avvicinava lungo la strada preceduta dalla macchina che ne era la causa, sperai non passassero accanto all’orto, mi sarebbe scocciato ritrovarmelo ricoperto di polvere. Fortunatamente la macchina si fermò nel cortile davanti alla casa. Scesero due uomini, due poliziotti. Non posso certo vantarmi di un’abilità deduttiva particolare, la macchina era della polizia e i due uomini erano in divisa.

Si guardarono attorno con l’aria strafottente di chi ha capito tutto, mi guardai attorno anch’io sperando in una rivelazione, ma la rivelazione non arrivò affatto. Forse bisogna essere nello stato d’animo adatto per le illuminazioni, o forse sono solo pochi i fortunati a cui la realtà si svela così, d’incanto. Io non vidi nulla di speciale, per cui mi accomodai nuovamente sulla sedia a dondolo e attesi, con la quieta speranza di venir messo a parte del significato recondito della realtà colto così d’improvviso dai due poliziotti.

Uno dei due, un po’ più anziano dell’altro si avvicinò a me, si fermò sotto il sole e si mise a fissarmi. Almeno credo, indossava gli occhiali scuri per cui non potrei giurarlo. L’altro poliziotto girò attorno alla casa, senza chiedere alcun permesso, come fosse tutto suo, per fortuna lasciò in pace il mio orto, mi resi conto che iniziavo a tenerci un po’ troppo a quell’orto. Quello che si era avvicinato si rivolse a me: “Caldo eh?”

Per un momento rimasi incerto a domandarmi se si trattasse di uno sfoggio di capacità deduttive, forse avrei dovuto applaudire o complimentarmi con lui per le sue abilità da Sherlock Holmes, ma poi decisi che semplicemente aveva caldo. In effetti era caldo, anche se nulla di eccezionale per la stagione, ma io ero all’ombra e con una bottiglia d’acqua fresca accanto mentre lui era fermo sotto il sole. Lo invitai a sedersi all’ombra accanto a me, ma rifiutò.

Forse le rivelazioni arrivavano più in fretta sotto il sole, probabilmente me ne stavo troppo all’ombra per raggiungere l’illuminazione, ma a pensarci bene Buddha aveva meditato per anni all’ombra di un banynan. Il poliziotto continuò a fissarmi senza dire nulla, per quanto mi riguardava poteva star li a guardarmi tutto il giorno, a me piaceva guardare l’orto, forse al lui piaceva guardare i guardatori di orti, non volevo certo rovinargli il divertimento.

“Che ne pensa della faccenda?” mi chiese improvvisamente. Lo guardai perplesso, mi domandai se fosse davvero così interessato al caldo da farne argomento di conversazione. Si era girato a guardare l’orto, ma in effetti benché fosse il mio orto non l’avrei certo definito una faccenda di cui valesse la pena parlare, per un attimo restai in silenzio poi chiesi: “Quale faccenda?” “Così lei non sa nulla della signora Wilson?” “Che le è successo?” chiesi. Ma invece di rispondermi il poliziotto proseguì con le domande: “Lo sceriffo non è stato qui da lei?”Scossi la testa: “Non lo vedo da quindici giorni almeno, da quando sono stato in città.” Non era affatto una città, era solo un mucchietto di case, ma gli abitanti ci tenevano a chiamarla città e non vedevo motivi per essere scortese. I due poliziotti si guardarono, poi si girarono verso di me: “Possiamo dare un’occhiata dentro?” Li invitai ad entrare con un cenno. Un attimo dopo il poliziotto che aveva parlato prima uscì affermando: “Lei ha un computer.” Non intendevo certo negarlo. Siamo nel duemila tredici, tutti hanno un computer, che razza di scoperta era quella? “Naturale che ho un computer, lo sapevo benissimo da solo.”
“E cosa se ne fa di un computer in una fattoria in mezzo a…” e indicò con un gesto del braccio la campagna circostante.
“Scrivo.” risposi.
“È uno scrittore?”
“Manuali tecnici. Niente letteratura. Scrivo manuali di informatica.”
Dopo un attimo uscì anche il secondo poliziotto chiedendo: “Cosa c’è al piano di sopra?”
“Non ne ho idea, non ci sono mai salito.”
I due poliziotti si scambiarono uno sguardo d’intesa.
“Non è mai salito? Non le dispiace se diamo un’occhiata noi allora? Così poi le raccontiamo cosa c’è.”
“A me non spiace affatto, ma fossi in voi non lo farei.”
I poliziotti assunsero un’aria sempre più soddisfatta. “Vuole impedirci di salire? Sicuro di non aver qualcosa da nascondere? Possiamo tornare con un mandato e rivoltare per bene tutta a zona, compreso il suo orto. Chissà cosa c’è sotto quella terra smossa…” concluse con un’aria soddisfatta.
“Per carità, andate dove volete, ma prima di mettere un piede sui gradini guardate bene la scala. Se crollate a terra perché si sfascia io non voglio grane. Perché pensate che io non sia salito? Probabilmente il solaio fa fatica a reggere il peso dei topi che ci sorrono sopra la notte.” In realtà non era l’unico motivo per cui non ero salito, quello più importante era che non ne avevo nessuna voglia. Sapevo com’era fatta la casa, ci avevo vissuto quasi metà della mia vita e sapevo che non vi avrei trovato nulla di interessante, solo polvere. Polvere di quella che ricopre i ricordi, ingrigendoli ne appiattisce i toni, smussa le asperità dolorose, ma allo stesso tempo toglie forza e colore ad ogni cosa. E comunque non volevo nemmeno rompermi l’osso del collo.
I due poliziotti rientrarono e io li seguii. Fissarono la scala con aria dubbiosa, sicuramente cercarono di valutare se il rischio di rompersi l’osso del collo sarebbe stato ripagato da qualche clamorosa scoperta. Evidentemente decisero che era meglio lasciar perdere. Uscirono nuovamente sotto il sole e si avviarono verso la macchina tentando un’uscita ad effetto con un minaccioso: “Torneremo a trovarla.”

Mi appoggiai a una delle tarlate colonne che sostenevano il portico e li richiamai: “Ehi… che è successo alla signora Wilson?”
Il poliziotto più anziano si fermò un momento, si girò a fissarmi e tornò verso di me: “Le interessa veramente?”
“Naturalmente” risposi.
“La conosce bene?”
“Conosco la signora Wilson, certo, così come conosco suo marito, il signor Wilson e visto che le è successo qualcosa vorrei sapere cosa. Considerato soprattutto che vi comportate come se il colpevole fossi io, vorrei sapere colpevole di cosa.”
Il poliziotto si guardò in giro con aria imbarazzata: “È scomparsa da una settimana. Lo sceriffo si è guardato un po’ in giro, hanno battuto la campagna con i cani, hanno fatto domande, ma non hanno trovato nulla. Non deve aver guardato molto bene se non è arrivato nemmeno fin qui da lei. Comunque adesso hanno chiamato noi.”
“Capito” risposi con un cenno d’assenso.

Il poliziotto si avviò nuovamente verso la macchina, poi si voltò verso di me. Per un attimo ebbi una specie di deja vu, ma non riferito alla vita reale, pensai invece di essere finito in un episodio del Tenente Colombo, sapete quando si gira all’ultimo momento fingendo di essersi scordato qualcosa. Mi sentii colpevole, il Tenete Colombo fa sempre così con i colpevoli, ma onestamente non mi pareva di aver fatto nulla di male. Il poliziotto tornò nuovamente verso di me: “Da quanto tempo vive qui?”
“Cinque mesi, più o meno.”
“Cosa c’è venuto a fare? Non mi dica che le piace il panorama.”
“Storia lunga.” risposi

“Buona giornata.” concluse avviandosi alla macchina.
Li guardai allontanarsi seguiti dalla solita nuvoletta di polvere e ripresi la mia posizione sulla sedia a dondolo. Pensai alla signora Wilson, l’avevo incontrata varie volte, tutte le volte che andavo in città in effetti visto che lavorava al negozio di alimentari con suo marito e l’unico motivo per cui andavo in città era proprio l’acquisto di cibo. Si lo so che avevo l’orto, ma l’orto mica produce tutto. A me ad esempio piace la carne e non avevo nessuna voglia di mettermi ad allevare animali. Troppo complicato.

La signora Wilson. Una donna bella, con lo sguardo rassegnato di chi ha smesso di sognare. Lo stesso sguardo che avevo scorto negli occhi di tutte le donne che avevo incontrato in quei luoghi. O meglio, re-incontrato. E in tutte lo stesso lampo di speranza quando avevo parlato con loro. Se avessi voluto complicarmi la vita quello era il luogo giusto. Intendiamoci, non voglio certo sembrare presuntuoso affermando di aver risvegliato qualcosa in tutte le donne del posto, non contava nulla come fossi, ero semplicemente l’unica distrazione, l’unico uomo diverso da tutti quelli che avevano conosciuto. Ai poliziotti avevo detto che scrivevo manuali tecnici, è vero, li scrivo, ma non era tutta la verità, a quel tempo avevo scritto tre romanzi e un po’ di racconti, tutti pubblicati con un discreto successo. Niente best sellers, ma abbastanza copie perché il mio editore mi chiedesse di scrivere ancora. E quella città era ovviamente il posto al mondo dove ero più conosciuto, non so se odiato o amato, forse né una cosa né l’altra, ma tutti sapevano chi ero.

Guardai l’orologio, pedalando con un ritmo decente sarei arrivato in città prima del tramonto. Nella città vera intendo, non le poche case che qui chiamavano città, la città da cui arrivavano i poliziotti e anche la città dove molto probabilmente avrei trovato la signora Wilson. Quei poliziotti non l’avrebbero mai trovata da soli e avrei fatto meglio a trovarla io prima che mi accusassero di qualche orribile quanto fantasioso delitto.
Inforcai la bicicletta e mi diressi alla vecchia strada che snodandosi fra i campi portava in città.

Mi stava accadendo proprio ciò che avevo cercato di evitare. Il grano a perdita d’occhio ai lati della strada, ondeggiante nella luce radente della sera, le ruote della bicicletta sull’asfalto, l’odore di terra, tutto mi riportava indietro di oltre vent’anni.
Avevo sperato di evitare l’incontro coi ricordi, ma ormai era ovvio che non avrei potuto sfuggirvi, tutto congiurava per risucchiarmi nel passato. Non ho nulla contro il passato e il mio non era poi tanto brutto, ma preferisco considerarlo per quello che è, passato appunto. I miei pensieri sono già abbastanza aggrovigliati senza la necessità di indulgere nei ricordi.

Eppure bastava il cigolio della catena che dava il ritmo ai miei pensieri a farmi tornare ragazzo, pigri ricordi risalivano lentamente alla superficie nonostante tentassi di ricacciali indietro. Alla fine rinunciai e mi lasciai cullare da quell’involontario ritorno al passato e per la prima volta dopo mesi sentii sollevarsi il peso che portavo dentro. Una volta quand’ero bambino una piccola scossa di terremoto ci aveva svegliati nel cuore della notte. Dopo alcuni momenti di ansia eravamo tornati a dormire, ma la mattina dopo, davanti a casa, trovammo una grossa crepa nella terra del cortile. Sembrava che il terreno si fosse lacerato e avesse poi tentato di richiudersi con troppo impeto, creando così due bordi rialzati e frastagliati attorno alla ferita. Il terreno scuro che si riversava dalla crepa, umido e ricco di larve e vermi venne subito preso d’assalto dal pollame e dagli uccelli che si precipitarono su questo pasto ricco e inaspettato. Noi guardavamo sospettosi, ci tenevamo alla larga, quasi sentissimo che quel terreno proveniente dalle viscere della terra non avrebbe dovuto trovarsi esposto alla luce del sole. Naturalmente era solo terra smossa e non accadde proprio nulla di speciale, si seccò rapidamente e ben presto assunse le sembianze del terreno circostante. Poco tempo dopo non facemmo più caso alla crepa, iniziammo a calpestarla, a passarci sopra con le ruote delle macchine e così facendo la livellavamo. Qualche temporale rese fangoso il cortile, il sole poi riseccò nuovamente la terra finché le ruote dei trattori finirono di appianare tutto rendendo uguale al resto del terreno il punto dove era apparsa la crepa. Non passò molto che non ne rimase più traccia e finimmo per dimenticarcene.

Allo stesso modo la crepa che Rachel aveva tracciato sulla mia anima aveva un po’ alla volta smesso di trasudare le larve del dolore e aveva iniziato ad appianarsi. Il tempo trascorso nella vecchia casa aveva agito come la pioggia e il sole, ma solo in quel momento capii che la faccenda della sparizione della signora Wilson stava agendo come le ruote dei trattori, comprimendo e appianando del tutto la ferita.

Di quando in quando uno scorcio particolare, un profumo di fiori o un soffio di vento caldo mi facevano tornare alle mente le migliaia di volte che avevo percorso quella stessa strada. Spesso assieme alla signora Wilson. Mi venne da ridere a quel pensiero. La signora Wilson, certo che la conoscevo, così come conoscevo il signor Wilson, da sempre. La conoscevo quando non era ancora la signora Wilson, quando era semplicemente Vera, Vera Davis e quando il signor Wilson era il mio amico Ben.
Vera Davis, avevamo fatto le stesse scuola, fin dalle elementari, lei aveva tre anni meno di me, ma eravamo sempre stati amici, poi al liceo eravamo anche stati assieme per un po’.

La città era cambiata, molto più del resto, me ne accorsi quando all’improvviso vidi il tramonto riflesso nei vetri dei grattacieli. Mi sentivo un po’ in colpa, in fondo probabilmente era davvero un po’ colpa mia se era sparita, o almeno lo speravo, perché se fosse stato così avrei probabilmente saputo dove trovarla.

La stazione degli autobus era tutta nuova, ma era sempre nello stesso posto di oltre vent’anni prima. Appoggiai la bicicletta ad un muro della stazione, era abbastanza scassata da non dovermi preoccupare che la rubassero e comunque non me ne sarebbe importato nulla. Mi guardai attorno, davanti alla stazione c’era un piccolo parco, qualche albero, dei giochi per bambini in un prato stentato. In mezzo al parco un masso poco più alto di un uomo svettava incongruamente, nella stessa posizione in cui si trovava quando me ne ero andato dalla città. Gli avevano costruito attorno il parco giochi, ma quel solitario blocco di pietra era rimasto identico. Sulla cima piatta di quel masso, da ragazzi, ci stendevamo a contemplare la strada che si perdeva verso il tramonto e amavamo guardare gli autobus che partivano con il sole riflesso sulla vernice.

Sognavamo un futuro lontano da li, diverso e magnifico.

Mi incamminai verso il masso, lei era li, come mi aspettavo. Il sole si rifletteva nei suoi occhi e nelle lacrime che le rigavano il volto. Salii accanto a lei. Mi guardò con un sorriso triste e chiese: “Perché non mi hai aspettata?”
“L’ho fatto. Ti ho aspettata, ti ho aspettata per anni. Ti ho chiesto di venire con me. E quando non l’hai fatto ti ho aspettata ancora e poi ti ho chiesto di raggiungermi finché non è diventato troppo tardi.”
“Non ero pronta, lo sai. Non ero pronta ad andarmene.”
“Lo so.” La guardai con dolcezza, le asciugai le lacrime con un dito. “Non eri pronta, e ho smesso di aspettarti quando ho capito che non lo saresti mai stata.”
Mi accarezzò a sua volta: “Avevi ragione sai? E hai ragione anche adesso, non sarei mai stata pronta, la mia vita era qui, nonostante tutti i sogni che abbiamo fatto assieme.”
Si schermò gli occhi per guardare il sole, sospirò profondamente e riprese con una punta di malinconia nella voce: “È una settimana che vengo qui, tutti i giorni, al tramonto. Guardo gli autobus che partono, come facevamo da ragazzi e sogno gli stessi sogni che facevamo allora. Non ti biasimo per essertene andato, ma ci sono momenti in cui vorrei aver avuto la forza di venire con te. Tu non potevi restare, l’ho sempre saputo che te ne saresti andato prima o poi, con me o senza di me.”
Mi alzai e le tesi la mano: “Andiamo ora, il signor Wilson è preoccupato per te.”
Scoppiò a ridere: “Povero Ben, non è cambiato per nulla, non è mai cambiato, nessuno qui è cambiato.”
MI guardò con simpatia: “Siamo orgogliosi di te, sai? Lo sapevamo tutti che tu eri diverso.”

Poi tornò improvvisamente seria aggiungendo: “Resta con me questa sera. Solo per questa notte. Ho una stanza qui vicino. Domani tornerò da Ben e alla mia vita, ma questa notte resta con me. Fammi credere che avrebbe potuto essere diverso.”

M.E. Stetson
[Remoto geografico] – 2013

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